Per chi scende dalla barca: “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola

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Mai scendere dalla barca. Mai scendere dalla barca. Mai. Scendere. Dalla barca.
C’è poi però chi scende lo stesso. E intraprende un viaggio in picchiata tra i suoi incubi. C’è chi percorre fino in fondo il fiume e non torna mai più indietro. Chi arriva fino alla fine, fin dove è inimmaginabile giungere. E lì trova il buio.

Mi sono bastati pochi minuti ieri sera, prima di uscire e tornare a ore discretamente piccole a casa, pochi minuti di “Apocalypse Now” (Francis Ford Coppola, 1979) in tv, perciò che mi tornasse un impulso ormai del tutto ingestibile, in quanto profondamente intimo. Sì perché “Apocalypse Now” è un viaggio fluviale e oscuro verso una riflessione su ciò che di più è a sua volta oscuro nell’esistenza. Un sottile ma affilato trapano che perfora l’anima nel profondo, una chiave inglese che storce la serenità e muove le confessioni più inconfessabili. Un impulso su qualcosa che è talmente reale da risultare, appunto, del tutto ingestibile. Guardarlo una volta lascia un segno evidente, guardarlo circa dieci (come è successo a me) risulta rivoluzionario. In fondo non è un film di guerra “Apocalypse Now”, non lo è affatto. La prende la guerra, quella del Vietnam, ma solo come perfetta cornice per il suo vero messaggio: l’esplorazione dell’esistenza, dei suoi angoli più profondi, del significato di viaggio, di quello di pazzia, e quindi di quello di morte.

Innanzitutto c’è la necessità di una missione. La storia comincia così, con un’esigenza per vincere quel senso di inconcludenza che incombe quando il pensiero che tutto sia perso si avvicina progressivamente come una nube nera, tossica e soffocante. Benjamin L. Willard già conosce il Vietnam e il ritorno a casa. E difatti è di nuovo in Vietnam, consapevole che una casa, oramai, non ce l’ha più. Ma solo il bisogno: il bisogno di una nuova missione, perché è quella la sua casa, perché a quella appartiene davvero. Un’ossessione che lo distrugge, un pensiero fisso, un rantolo che lo fa muovere scomposto, che gli fa perdere moglie, famiglia e senno, che lo dilania lentamente, minuto dopo minuto, pezzo dopo pezzo. Una missione che adesso ha un volto, un nome e un cognome. Un colonnello, il colonnello Walter E. Kurtz, un pazzo gli dicono, uno uscito completamente dalla capacità di intendere e di volere, uno che si è fatto un esercito da sé che lo venera come un semi Dio, uno che ha sviluppato un suo insieme di metodi del tutto insani. Uno che sta in fondo al fiume. Willard ha con sé un manipolo di giovani dalle belle speranze, che ascoltano i Rolling Stones, che hanno dei sogni, che ancora prima del diploma già gli avevano dato in mano un fucile. Uno chef, un giovane afroamericano, un surfista e il capo: questi quelli più evidenti. E ha una barca: il viaggio così può cominciare. E qui è interessante, perché in realtà il viaggio è perlopiù sensoriale ed episodico. Non vi è quella trama folgorante, avvincente, quello stile denso di colpi di scena di cui Hollywood è maestro: c’è solo un viaggio. Via via verso l’inferno, più o meno. Un tragitto che passa su un grosso fiume dal Vietnam alla Cambogia, attraverso una serie di incontri che delineano poco a poco uno scenario onirico e sempre più simbolista. La guerra diventa un espediente molto efficace per dare l’idea della saggezza del delirio che invade l’esistenza quando giunta all’estremo. Non vi è più pazzia, perché essa non è che la realtà dei fatti, dunque diventa in un certo senso una forma di sanità, o perlomeno di abitudine quotidiana. Quella che ti fa surfare tra i bombardamenti, che ti fa gridare come un ossessionato nell’intravedere una tigre, che ti fa sparare alla cieca senza alcun comando in merito, o a freddo a una donna disperata che nasconde un cucciolo di labrador, e lo fai solo perché sei completamente eroso dalla paura o – motivo più probabile – del tutto fottuto e basta. Ma va bene, la missione c’è, la “casa” c’è, e la sicurezza effimera di non essere ancora morti o dispersi. E il viaggio continua, e anche se di fatto perlopiù visivo, ne si percepiscono netti i rumori sinistri e, soprattutto, gli odori, che sono via via più malsani; tutto diventa sempre più claustrofobico, anche se non c’è quasi scena girata in interni. La giungla è nebbiosa, fumosa. Sì, fumosa è l’aggettivo più calzante, ma in un senso stretto. E’ appunto un film pieno di fumo, tra umidità e fumogeni colorati. Tutto è incredibilmente soffocante: è come se metro dopo metro di fiume fitte ragnatele invisibili si aprano e subito si chiudano dietro alla barca. E metro dopo metro diventino più malsane, più intossicanti, asfissianti. Soprattutto dopo il ponte, il confine dove la legge, semmai ci fosse stata, si elimina del tutto. E tutti si scontrano, tra loro e dentro di loro. Da lì, da quell’ultima illusione di ordine che poi è puro disordine, non c’è più ritorno. Non vi è più esercito socio-politicamente riconosciuto, non c’è più bandiera: solo malaria, cadaveri e incubi. Ma non stupisce: è solo una conseguenza logica, è solo il normale decorso che può avere questo viaggio. Non può andare altrimenti. Perché sì, ogni fiume per quanto lungo, tortuoso, pieno di incontri, di lidi, alla fine una fine ce la deve avere. E ce l’ha. E Willard ci arriva. Praticamente da solo, perché il ragazzo afroamericano è morto, è stato ucciso ascoltando una registrazione di sua madre, perché una freccia ha trafitto il capo, perché gli altri in fondo al fiume, probabilmente, c’erano finiti da tempo. Un uomo, Willard, che giunto alla fine si trova da solo di fronte a un essere dalla tale disperazione da non essere più umano: un Dio per alcuni, un completo pazzo per altri, un personaggio che l’incantevole fotografia del film lascia quasi sempre in penombra a parte al giungere dell’inevitabile fine, quell’ultimo e forse unico lembo di moralità concreta in tutto il viaggio. Walter E. Kurtz non ha metodi insani: semplicemente non ha più metodi. Non è pazzo: è semplicemente una persona del tutto sconfitta. Ha assaggiato il sapore della paura, anzi ne è stato divorato completamente. Ma la sua colpa, la sua pazzia, la sua malattia, è quella di aver avuto la forza, l’incredibile e intollerabile onestà intellettuale di averla ammessa: di aver ammesso la paura, di averla riconosciuta come unica direzione di vita da poter perseguire, di abbracciarla, perché quando si supera il confine e si arriva oltre, oltre all’umana sopportazione, oltre alla linea di separazione (semmai ne esista davvero una) tra bene e male, oltre al peggio raggiungibile, lì insomma dove il fiume finisce, non rimane che un’unica cosa vera: l’orrore. L’orrore. E basta.

Ho visto quasi dieci volte, o forse di più “Apocalypse Now”, ma mi sono bastate poche scene stavolta per non riuscire più a trattenere l’impulso di scriverci qualcosa. Qualcosa su qualcosa di profondamente intimo da risultare quasi incomprensibile perché fin troppo scavato, incredibilmente umano nella sua costante manifestazione della disumanità, qualcosa che allora mi ha commosso dal primo secondo e che mi continua a commuovere fino all’ultimo, anche se solo per pochi minuti, prima di uscire in una serata finita tante ore più tardi.

Pierpaolo de Flego

Sulla storia a venire: “Videodrome” di David Cronenberg

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Era luglio. Luglio 2014. Ero con la band: un weekend di caldo, musica e svariate bibite. Ma di musica e caldo, soprattutto. Era luglio ed ero a Barolo: il giorno dopo avremmo suonato in uno dei festival più riusciti in Italia. Il Collisioni Festival: musica e cultura, a tratti snob ma bello, bello davvero. Qualche giorno prima guardai il programma degli eventi e lessi che un giorno, in una zona del festival a una data ora ci sarebbe stato un meeting con James Ellroy, coordinato da Carlo Lucarelli. Proprio in un giorno in cui c’eravamo anche noi. Mi dissi che ci sarei andato. E ci sono andato. Una conferenza meravigliosa, della quale – e da qui il motivo di questa lunga introduzione – ricordo circa una frase che disse Lucarelli presentando Ellroy: “Per me James Ellroy è stato uno scrittore fondamentale. Perché Ellroy mi ha insegnato che nel mondo esiste il male e il male”. Il male e il male. Un interessante risvolto, una chiave di lettura avvincente: o, se non altro, un’attenzione singolare. Il male e il male, o se si preferisce il male e basta: l’unicità ridondante che a volte qualcuno sviscera. Lo fa Ellroy con i suoi libri, lo fa Cronenberg con i i suoi film: o perlomeno nei (pochi) film suoi che ho visto (sì, me ne vergogno, e non sapete quanto). O perlomeno, nell’ultimo suo film che ho visto: “Videodrome”.

Ora, parlare di “Videodrome”, che è un po’ quello che mi piacerebbe fare qui, è difficile. Ha una trama confusa, è una pellicola che da un certo punto in poi vive di vita propria, impazzisce. “Videodrome” è tra i primi film di Cronenberg, è grezzo, incazzato, violento. Parla di televisione innanzitutto, di televisione e di pornografia televisiva. Il protagonista del film è Max (James Woods), direttore di una rete televisiva che trasmette principalmente soft porno e programmi “contro”. Max però vuole andare oltre, vuole qualcosa di più spinto, di più violento, di più. E lo trova. Un suo collaboratore stana un nuovo programma satellitare: la definizione dell’immagine è confusa, a volte la linea salta, ma il concetto è chiaro. Un programma di ultraviolenza e torture. Forse è tutto finto, forse è tutto vero. Sì, è tutto vero (forse). E il programma si chiama “Videodrome”. “Videodrome” però non è solo un programma televisivo assolutamente illegale, violento, macabro e sadico. Incarna qualcosa di più: è un emanatore di onde elettromagnetiche che compromette chi ne viene investito, è una matrice di allucinazioni, un ricettacolo di incubi via tubo catodico. Facendola breve (e non volendo raccontare troppo), la vita di Max viene pian piano investita da uno stato di perenne confusione, da un crollo psicologico e da un turbinio di allucinazioni, automutilazioni e sadismi. “Videodrome” seduce e uccide, tortura e rende chi lo guarda suo schiavo: la televisione prende vita, l’uomo diventa televisore, con la televisione si può fare sesso, la si può torturare. Essa diventa una realtà prima, la realtà poi.

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Ed è questo il punto, a mio parere, più importante e, in buona sostanza, davvero lungimirante: “Videodrome” diventa tutto ciò che esiste. La televisione diventa la realtà per chi ne è assuefatto. Non esiste più altro: solo ciò che si vede in essa. “Videodrome” è un film che anticipa un cancro del mondo contemporaneo: la verità che è tale perché è nello schermo. Il concetto di realtà è il concetto di reality. “Videodrome” è un oracolo disperato che prevede la società che sarà, totalmente alienata a causa del mass media. Dello schermo: c’è un rapporto morboso, quasi erotico, o meglio pornografico, con lo schermo. Ci si penetra dentro prima, ci si diventa poi. La pancia del protagonista si trasforma a un certo punto in un videoregistratore dalla forma inequivocabilmente vaginale, diventa un grembo-mangiacassette. La sua vita è il video, la sua carne è ibrida: la sua è una nuova carne, la sua è una vita al confine su una superficie brillante a pixel, lievemente ricurva.

Cronenberg rappresenta, insomma, una forma del male: il male più allucinato, confuso, contemporaneo, irreale e reale al contempo e che in questa sua dicotomia trova la sua spietata natura. E che culmina in un finale assolutamente incerto e violento. L’unico finale possibile, per un protagonista che ha cercato di andare oltre. E ci è riuscito. In un certo senso, con il tempo ci siamo riusciti anche noi. Cronenberg ci aveva avvisato. Noi, probabilmente, non l’abbiamo ascoltato, ci siamo girati dall’altra parte, abbiamo forzato la nostra miopia. Ah, c’è un’ultima cosa da dire: “Videodrome” è un film del 1983. Lo stesso anno da noi, in Italia, usciva il primo “Vacanze di Natale”. Forse adesso è tutto più chiaro. E direi che basta così.

Pierpaolo de Flego

La primavera non c’è più: “Requiem for a dream” di Darren Aronofsky

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Innanzitutto serve una cena leggera. Riso in bianco, insalata, magari dei pomodori ma pochi, al massimo del pollo ai ferri ma poco condito. Una dieta del genere è necessaria perché, se poi si è intenzionati a passare un’oretta e mezza serale guardando “Requiem for a dream”, bisogna essere fisicamente preparati. Preparati a una raffica di pugni allo stomaco ben direzionati. “Requiem for a dream” è il secondo film di quello che io reputo il miglior regista del nuovo millennio, Darren Aronofsky. Il secondo film e anche il più duro dei cinque che ha fatto: un capolavoro, è indiscutibile, ma durissimo.

“We got a winner!”. Abbiamo un vincitore. Promesse di dimagrimento via tubo catodico, deliri sociali in prime time, una vecchia televisione, una donna sola e anziana. “Regola numero uno: niente carne rossa”. Poi basta. La tv si spegne dal nulla. Serve al figlio, servono soldi. “Requiem for a dream”, titoli di testa. Clint  Mansell alla composizione musicale, Kronos Quartet all’esecuzione magistrale. E’ estate. Ci sono donne vecchie e sole che parlano a volumi leggermente al di sopra del sopportabile, con sdraio o semplici sedie da cucina per sedersi sotto il cocente sole della periferia di New York. Si parla: di figli, di televisione. I figli: Sara Goldfarb, la vecchietta di prima ne ha uno, Harry. E’ tossicodipendente e lei non lo sa. Lui ha una ragazza, Marion. Anche lei è tossicodipendente. Lui ha un amico, Tyrone. Anche lui è tossicodipendente. E’ estate e da un lato c’è una donna sola e teledipendente, dall’altro il figlio tossico, che insieme all’amico ruba periodicamente la televisione alla madre per rivenderla e farsi qualche dollaro. Per cosa? Per l’eroina. Per sé e per la ragazza. E’ tutto chiaro. Poi succedono due cose: una è una telefonata, l’altra è un’idea. La telefonata è per Sara Goldfarb: le viene detto che sarebbe andata a breve in un programma televisivo, che avrebbe vinto. Dall’altra l’idea: Harry e Tyrone vogliono farsi i soldi spacciando. Tanti soldi. Sara ha un bel vestito che si potrebbe mettere per il programma, è rosso. Un bel vestito rosso. Ce l’aveva al diploma di Harry, in quella bella foto che li ritraeva insieme al defunto marito e padre. Il vestito però è ormai stretto: serve una dieta, anzi no, serve dimagrire (e subito). C’è un bravo dottore, uno di quelli che ti dà le pillole, uno di quei dottori taumaturgici. Tutto va bene, i chili diminuiscono da un lato, i soldi esplodono dall’altro. Ma nessuno dei personaggi in gioco si ricorda una cosa molto importante: dopo l’estate c’è l’autunno, e dopo l’autunno l’inverno.

D’autunno, infatti, le cose cadono, d’inverno muoiono. Tutto crolla, tutto si decompone, tutto agonizza: anche Sara, anche Harry e Tyrone e Marion. Aronofsky è spietato, odia letteralmente i suoi personaggi, non concede nulla all’immaginazione, taglia braccia ormai in cancrena, compie agghiaccianti elettroshock e te li mostra in faccia, a neanche un metro di distanza. Il montaggio rapido e serratissimo, costituito da immagini semplici e chiare, non lascia spazio alla calma. Vedi “Requiem for a dream” e sei in un costante stato di angoscia: un’angoscia che ti paralizza e ti tiene incollato allo schermo. L’ironia e l’apparente brillantezza di inizio film vengono martirizzate nel giro di un’ora e mezza: dall’estate di sogni all’inverno di incubi ci passa, in realtà, poco tempo. Sogni dunque che muoiono: sogni di gloria, sogni innocenti perché i sogni, qualsiasi essi siano, sono entità innocenti. Eroina, anfetamine, prostituzione, malati giochi erotici, proiettili in pieno volto, personaggi televisivi ringhianti e infernali che creano un circo animalesco nel semplice salotto di una vedova, un frigo che si muove, degenero fisico e mentale: i personaggi, inizialmente bellissimi, vengono inabissati nel mondo sbagliato in cui hanno scelto di vivere, fatto di tutti questi strani dettagli. Personaggi che dunque toccano il fondo e non risalgono più in superficie.

Darren Aronofsky rappresenta in ogni suo film un concetto universale: ne “Il cigno nero”, ad esempio, mostra la pazzia, in “The Wrestler” l’infinita tristezza e in “Pi greco” la troppa genialità umana. Bene, in “Requiem for a dream” rappresenta, semplicemente, la fine. Lo fece anche un altro grande regista, Francis Ford Coppola, in un capolavoro chiamato “Apocalypse now”: erano gli anni ’70, anni in cui si sperava ancora in qualcosa. Aronofsky l’ha fatto invece nel 2000, quando la speranza, ormai, era già un miraggio. “Requiem for a dream” è dunque un quadro iperrealista di un mondo ridotto ormai a sole tre stagioni, che si susseguono con un preciso iter: estate, autunno, inverno. La primavera, quella, non è che un sogno, a cui Aronofky ha reso, con un semplice film, il più degno dei funerali.

 

Pierpaolo de Flego

Una giraffa che scompare: libera recensione su “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino

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Sorrentino è tornato in Italia e si vede. E’ tornato con quel fascino macabro del Divo Giulio, con l’atmosfera satura di quelle conseguenze dell’amore da non sottovalutare mai , dell’uomo nero e amico di famiglia, è tornato quel Sorrentino dell’Italia più buia del noir, quello dell’Italia delle controversie, delle incomprensioni, dell’insensata bellezza. “La grande bellezza” d’Italia, appunto.

“La grande bellezza” è, in primis, Roma. Sorrentino resuscita la dolce vita felliniana , ma la contestualizza al 2013: una dolce vita al risparmio, sia di soldi, che di valori, che di stile. Una Roma che è nobile decaduta, l’ex capitale di un mondo morto, dove però chi ci vive crede fermamente sia ancora vivo e vegeto. E’ una Roma che piange le nefandezze del paese che rappresenta con gli occhi di un protagonista, interpretato magistralmente da Toni Servillo, che è uomo, che della dolce vita si è nutrito per decenni. Toni Servillo è infatti Jep Gambardella, viveur immigrato a Roma anni prima, scrittore di un unico romanzo e brillante giornalista di costume. Gambardella è il re delle feste romane, è il mito per eccellenza, la conditio sine qua non per la riuscita giusta di un happening capitolino. Il film si apre con la sua festa di compleanno: la festa per i 65 anni del re di Roma. Da qui la sua storia comincia: la storia di un mito. Bob Sinclair risuona con una cassa dritta omicida e accompagna i fiumi di champagne, i balli in cravatta, la sfrontatezza del potere, l’atmosfera ovattata della cocaina, il flirting più basso. Ma Gambardella è altro, è il protagonista di un film di Sorrentino, è il personaggio, il divo e l’anti-divo, è l’unica voce che conta in un universo di voci scontate e cafone.

“La grande bellezza” è anche, poi, tutto questo: la bellezza effimera e, poi, la vera bellezza ma drammatica dovuta alla consapevolezza. Gambardella scopre durante il film la noia, l’insensatezza di un mondo inesistente. Roma fa da cornice dunque al suo stesso funerale, e Gambardella fa l’orazione funebre più degna. La pellicola deride, con l’estro del suo protagonista, tutto lo scatafascio culturale del nostro paese: i personaggi si credono i più convinti intellettuali, parlano di partito, di ideali. Mai, ovviamente, di idee. Gambardella dunque li osserva, li descrive usando quei monologhi, che sono appuntamenti fissi nei film di Sorrentino e che  hanno reso Sorrentino stesso, probabilmente, il miglior regista italiano del momento.  

Salotti bene, abomini, luci soffuse, loft, pseudo-escort tatuate con gusto quasi galeotto, freak show patinatissimi: Sorrentino regala uno squarcio di 2013 con il linguaggio della classe dirigente più silenziosa, che vuole governare le menti perché pensa di essere l’unica entità pensante. La ricerca dell’inusuale, del sorprendente, delle feste ipnotiche: tutto si sgretola man mano che i minuti passano, mentre aumenta la solitudine. Gambardella, infatti, conosce tutti, ma è come se non conoscesse nessuno, è un uomo solo, di fronte alla consapevolezza del nulla . Se non si fosse capito, Jep Gambardella è un protagonista incredibilmente sorrentiniano: egli è, al contempo, Titta Di Girolamo, Giulio Andreotti e Antonio Pisapia, ma con l’aggiunta della brillantezza e della disperazione del Dio affranto delle feste romane.

Con il passare del tempo, appunto, Jep Gambardella diventa sempre più consapevole della tristezza che in fondo lo circonda. E con l’aumento di questa comprensione, cambia poco a poco  anche il suo sguardo verso il mondo. Grazie ad un mistico incontro, a fine film Jep Gambardella capisce cosa sia la grande bellezza, o per lo meno quella che stava cercando: la bellezza della semplicità, la bellezza di chi vive con nulla.

Il nulla che può essere qualcosa, qualcosa con cui vivere, e il tutto, che in realtà è niente. Questa affascinante dicotomia del mondo viene percorsa da Gambardella a suo modo, tutta d’un fiato. Alla fine, un nuovo romanzo potrà dunque essere scritto. Un romanzo che forse parlerà di qualcosa, in mezzo ad un mondo così labile da rendersi ormai invisibile, come fosse una giraffa, fatta sparire dal più grande degli illusionisti.

Pierpaolo de Flego