Cinque. Per cinque. Per due e mezzo. Queste sono le misure. Non vi è quasi stato altro spazio, negli ultimi anni. Che con oggi, sono dieci.
Dieci anni mi avevano promesso, dieci anni ho rispettato, pulito pulito. E non ho certo intenzione di stare qui un giorno di più. Dio solo sa quante volte ho pregustato questo momento, quante volte ho contato i giorni e ho perso il conto.
Quante volte ho sognato di essere lì, davanti all’enorme cancello grigio, logoro dalla ruggine, a contare gli ultimi interminabili secondi prima che si apra? Quante volte ho pianto svegliandomi? Quante volte ho immaginato di volare via? Quante volte ho voluto tutto questo? Questo che sta per succedere adesso.
Me l’avevano promesso, i bastardi. E va detto che qui le promesse le mantengono. Mi hanno detto che mi avrebbero fatto uscire durante l’ora d’aria, per salutare tutti. Insomma, quelli che rimarranno, per me: dopo dieci anni qualcuno di valore, per la legge dei grandi numeri, devi averlo conosciuto, e modestamente, per certi versi, ho come sempre avuto un carattere idoneo a questo posto. In fin dei conti, tutto è andato bene, per quanto potesse. Perciò qualcuno, sì qualcuno lo vorrei salutare. Anche se forse non lo vorrei davvero o non dovrei volerlo – insomma, chiunque sano di mente, se avesse la possibilità, una volta uscito dal carcere si farebbe un bel lavaggio del cervello ai Caraibi, aprirebbe un cocktail bar sulla spiaggia e chi si è visto si è visto. Se avesse la possibilità… ma cosa ho, io? Sono arrivato qui che avevo venticinque anni, la faccia da rincoglionito e un lavoro come lavacessi alla stazione dei pullman. Cosa abbiamo noi? Cos’ha, chi ha la storia come la mia? Chi è dentro già da un po’ di tempo capisce che dopo un po’ questo è l’unico posto che ti rimane. E che lì fuori nessuno sta morendo dalla voglia di metterti su un piedistallo, fermare la folla e gridare: “Questo è mio figlio! Professione galeotto!” E non conta quante volte ti hanno portato le lasagne, i biscotti, le mutande nuove, quante cose ti hanno raccontato del mondo per farti sentire come se niente fosse successo. Perché è come andare sulla tomba di un amico: noi non siamo niente, non siamo più nulla. Ce la siamo cercata, la rogna, o magari per alcuni è solo una bella botta di sfiga: rogna o sfiga che sia, quello che è successo a me si chiama “furto con scasso”. Finito brutalmente a puttane, aggiungerei. Il poco che siamo diventati, nella vita, noi, lo siamo diventati qui. Se non altro abbiamo un ruolo, qui dentro, e una posizione per tutti gli altri, lì fuori. Siamo un numero, ma un numero preciso. E una volta che sarò uscito, non rimarrà neanche questo.
Ora ho paura: ho sognato per un decennio gli ultimi dieci minuti in questo tugurio d’incubi, e ora che ci sono me la sto facendo addosso. Mi manca il fiato, mi tremano le gambe. Ma ce la devo fare. Devo staccare il cervello. Farmi accompagnare fuori dai secondini di turno, raggiungere il cortile e salutare gli ultimi, sdentati, falliti amici che mi sono rimasti: sorbirmi l’ultima battuta idiota dello Smilzo e commissionare qualcuno che gli dia una bella sberla di assestamento; scroccare l’ultima sigaretta al Turco; abbracciare il Negro, che è dentro da ben più di me ma che la nostra lingua la sa ancora come se fosse arrivato in questo Paese l’altro ieri; e fare un cenno d’intesa, dalla giusta distanza, al Vecchio. Avrò sentito parlare Il Vecchio forse dieci volte in dieci anni, ma non importa: alcune persone non hanno bisogno di dirti alcunché per farsi ascoltare.
Ecco, io non voglio altro, solo questo: salutare questi quattro disperati in croce e togliermi di torno.
Non voglio ricordarmi delle lacrime di mia madre.
Non voglio immaginare cosa sarebbe successo se fosse andata altrimenti.
Non voglio aspettarmi niente a un metro da questo posto: né fiori, né mare, né sogni.
Non voglio pensare a niente, una volta che sarò arrivato lì, dove già mi aspettano gli ultimi, incalcolabili, interminabili secondi.
Pierpaolo de Flego